Cultura

La battaglia dei sessi e l’intersezionalità

Intersezionalità
  • Mi chiamo Michela e sono nata a Genova, Italia.
  • Mi chiamo Feng e vengo da Pechino, Cina.
  • Mi chiamo Jamila e sono originaria della Liberia, uno dei paesi più poveri dell’Africa.

Michela viene discriminata in quanto donna. Feng deve lottare contro il suo genere e contro il colore della sua pelle. Jamila è oppressa dal suo essere donna, dalle sue origini e dalla sua condizione economica e sociale.


Com’è possibile che queste tre guerriere combattano la stessa causa sul medesimo campo di battaglia ed in egual modo?

Questa domanda sfiorò l’opinione pubblica negli anni Ottanta, vent’anni dopo lo scoppio delle manifestazioni femministe che inondarono l’Europa e l’America e quando il Black-feminism affiancò alla discriminazione per genere la tematica ed il problema dell’identità etnica (chiamata da loro “razza”).

Il termine “intersezionalità” verrà poi coniato nel 1989 dalla giurista americana Kimberlé Crenshaw, autrice di opere come “Black Girls Matter” e “Say Her Name”, di grande rilevanza all’interno del movimento femminista globale e fonte di riflessione e ispirazione per tutte le donne afroeuropee. Per intersezionalità si intende l’analisi volta a considerare l’intera multidimensionalità dei soggetti, significa mettere a sistema simultaneamente tutti quei punti di differenziazione, ad esempio l’etnia, la religione, l’orientamento sessuale, l’estrazione sociale, l’età e la disabilità, che sarebbero rimasti altrimenti celati nell’eurofemminismo.

In realtà l’importanza dell’intersezionalità era già emersa ben prima del 1989: nel 1976, infatti, cinque donne di colore, ex impiegate della General Motors, azienda statunitense di autoveicoli, accusarono la ditta di discriminazione di genere e di razza; nessuna donna nera era stata assunta dalla fabbrica prima del 1964, anno della promulgazione del Civil Rights Act (che dichiarava illegale qualsiasi accenno di segregazione razziale nei luoghi pubblici e sul posto di lavoro).

Inoltre, agli inizi degli anni Settanta, la General Motors, ormai sull’orlo del fallimento, decise di ridurre il personale, tutelando chi aveva più anzianità lavorativa alle spalle e licenziando così le operaie nere. L’accusa di discriminazione sessuale venne respinta in quanto la General Motors aveva assunto, prima del 1964, lavoratrici bianche; l’accusa di discriminazione razziale, invece, cadde perché la ditta era già stata imputata da parte di operai neri per lo stesso reato ed il processo risultava ancora inconcluso. La vicenda delle cinque operaie dovette farsi largo tra l’insieme del movimento femminista e quello dei diritti delle persone di colore, ma non coincideva con nessuno dei due, piuttosto li intersecava in uno spazio del tutto nuovo.

Nasceva la necessità, dunque, di evidenziare i particolarismi individuali: nel 1973 prese forma la  “National Black Feminist Organization” (un ramo del Black-feminism che, con tono polemico, accusava le sorelle bianche di non aver mai sperimentato la servitù e di non riconoscere nella “bianchezza” il privilegio sociale, il punto di partenza per definire gli altri colori e stabilire una gerarchia sociale); l’anno successivo, nel 1974, venne alla luce il “Combahee River Collection” (un collettivo di femministe omosessuali e di colore).

Gli effetti dell’intersezionalità sono molteplici: anzitutto la miglior comprensione delle categorie sociali, volta ad abbattere l’intolleranza e qualsiasi forma di oppressione gerarchizzata, e successivamente l’empowerment, ovvero la crescita che ogni individuo compie per arrivare alla consapevolezza finale del suo pieno potenziale.

Giulia Severino

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