Cultura

La Rosa Bianca

La Rosa Bianca

Il giorno in cui, malauguratamente, foste rimasti desti di gambe e di senno al termine d’un sermone accademico ordinario, rigurgitato in una qualche aula affacciata su via Zamboni a Bologna, e, redivivi, aveste a disposizione una buona mezz’oretta per stiracchiarvi, uscire a zonzo e cominciare ad annoiarvi – o se semplicemente foste passati di là – ho una raccomandazione da fare. Scendete giù in strada, mattina pomeriggio sera che sia, poco importa: non potrete sbagliare. Superate il dilettevole odor di Piazza Verdi che tutti sappiamo  (dilettevole, allor che non si sposi con quello meno desiderabile  dell’urina della notte passata) e prendete a destra per Largo Alfonso Trombetti.

No, non desidero condurvi al bar Belmeloro, quantunque ve lo caldeggi prima di rientrare a lezione o di attendere alle vostre urbane faccende. Dovrete fermarvi un poco prima, là dove la strada incontra il vicolo San Sigismondo, nei pressi dell’omonima chiesetta. Allora la vedrete. Una minuscola piazza seminascosta e deserta, immersa nel quieto tepore bolognese, silenziosa tanto, che si stenta a credere che dieci metri più in su corra una delle arterie femorali della città. Nella piazzetta, se vi ci accosterete, troverete una targa eponima; su di essa, se aguzzerete un poco gli occhi, troverete una scritta; lampeggeranno allora poche parole, guizzanti nel pallido biancore del cartello. Reciteranno:

Piazzetta

LA ROSA BIANCA

Va da sé che, quando le ho lette per caso bazzicando lì intorno, stavo pigramente pensando all’argomento del prossimo articolo. Sono rincasato quasi subito. Ho indugiato con lo sguardo sulle biografie succinte dei protagonisti di quella tragedia, su quei ragazzi straordinari (di loro altro non sapevo se non che, tedeschi e cattolici, erano morti perseguendo un ideale di lotta non violenta e di liberazione, morale e fattiva, del loro amato popolo dall’incubo nazista) scoprendo con rammarico prima, con entusiasmo poi, che straordinari non si ritennero, né lo desiderarono mai.

Chi furono

I loro nomi: Alexander Schmorell, Christoph Probst, Hans Scholl, Sophie Scholl, Willi Graf, Kurt Huber. Furono giovani –nient’altro che giovani, purtroppo – forti di una gioventù intensa, passionale e bella: la medesima che auguro di vivere a te, mio giovane lettore, negli anni di vita più belli. Furono studenti, chimici, letterati; votati allo sport e all’arte. Leggevano e discorrevano insieme, muovendo dai sonetti di Michelangelo fino a Goethe. Furono animali pensanti, nel tempo in cui pensare parve  esercizio scomodo, ozioso e francamente indelicato, in un mondo votato visceralmente all’Ideologia. Nata in seno al totalitarismo Hitleriano, la Rosa Bianca fu vera associazione a delinquere, per una ragione particolare: furono un gruppo di amici, intimi e folli sognatori sino alla fine. Tra Schmorell e Probst, che costituivano il nucleo più antico, destinato ad allargarsi sempre più negli anni seguenti (si conobbero a quindici anni nel corso dell’anno scolastico 1935/1936 al Neues Realgymnasium, Monaco di Baviera), questi ragazzi non realizzarono mai una vera e propria organizzazione, ma agirono sempre soddisfacendo un sentire e un bisogno comuni, votandosi  alla resistenza passiva, sempre all’insegna del loro legame indissolubile. Ho sfogliato Seneca per cercarvi una definizione sublime della vera amicizia, tra le tante offerte dal pensatore latino, che renda loro un debito omaggio. L’ho trovata:

“Si cercherà l’amicizia come la cosa più bella, non per desiderio di ricchezza, né per timore di mutamenti di fortuna. Toglie all’amicizia ogni dignità chi la cerca per conseguire vantaggi materiali (…) A qual fine ti fai un amico? Per avere una persona per cui io possa morire, che io possa seguire nell’esilio e salvare dalla morte, a prezzo di qualunque sacrificio”. (Traduzione e note di Giuseppe Monti, epistola 9, libro Primo).

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Sopra “Il giuramento degli Orazi”, di Jacques-Louis David, 1784, olio su tela, Musée du Louvre, Parigi.

“Ut habeam pro quo mori possim”. Bellissimo. Quando ti tornerà alla mente la loro storia, passando per quella strada, non ti cadano in oblio neppure Seneca e David.

Partiamo dal principio. Di seguito, metto a testo due brani relativi alla salita al potere di Hitler, che ho ritenuto parimenti significativi per calarci nella realtà del tempo, e per iniziare la nostra indagine. Il primo non potete conoscerlo: una considerazione di Inge Scholl, sorella di Hans e Sophie, sulla giornata fatidica del 30 gennaio 1933. Il secondo riporta invece il discorso tenuto dal futuro dittatore tedesco il 10 febbraio dello stesso anno al Palazzo dello Sport di Berlino. È il suo primo pronunciato in qualità di Cancelliere. Per necessità di spazio, questo primo articolo “proemiale” terminerà qui, e sarà seguito, nei prossimi giorni, da successivi elaborati intesi a farti conoscere più intimamente vite e intenzioni dei nostri giovani protagonisti, con riguardo particolare ai sei volantini che ebbero modo di divulgare e di ciclostilare in decine di copie, editi dall’estate del 1942 al febbraio del 1943. Scrive Inge: 

Una mattina sentii sulle scale della scuola una compagna di classe che diceva ad un’altra: “Ora Hitler è al governo”. E la radio e tutti i giornali annunciavano “adesso le cose andranno meglio in Germania. Hitler è al comando”. Per la prima volta la politica entrava nella nostra vita. Hans aveva quindici anni, Sophie dodici. Sentivamo parlare in continuazione di patria, di compagnia, di comunità del popolo e di amore per la propria terra. Tutto ciò ci impressionava e quando per strada o a scuola ne sentivamo parlare stavamo ad ascoltare con grande entusiasmo.  (…) La patria: cos’altro era se non la grande terra di tutti coloro che parlavano la stessa lingua e facevano parte dello stesso popolo? La amavamo e potevamo dirne a malapena le ragioni. Ma ora, ora diventava grande e la si esaltava sopra ogni cosa. E Hitler – così si sentiva dappertutto – voleva aiutare questa patria a raggiungere la grandezza, la felicità e il benessere; voleva procurare a tutti pane e lavoro, e non si sarebbe fermato prima di avere raggiunto il suo scopo: (…) a noi questo piaceva, e qualunque cosa avessimo potuto fare per contribuire l’avremmo fatta. ( I. Scholl, Die Weibe Rose, pp. 13-14)

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Adolf Hitler durante un discorso al Palazzo dello Sport di Berlino, 10 gennaio 1933.

“Per quattordici anni i partiti della distruzione, del novembre, della rivoluzione hanno guidato e maltrattato il popolo, per quattro anni lo hanno distrutto, dissolto e annientato. Non è audace che io adesso mi presenti alla nazione e implori: popolo tedesco! Dacci quattro anni di tempo,  poi esprimi il tuo giudizio su di noi! (…) Ti giuro che così come noi e come io abbiamo assunto questo ufficio, così lo voglio lasciare nuovamente; non l’ho fatto per uno stipendio e un guadagno, l’ho fatto per te. È stata la risoluzione più difficile della mia vita. Ho osato perché credevo dovesse andare così; ho osato perché sono convinto che adesso non si può più indugiare a lungo; ho osato perché sono della convinzione che il nostro popolo tornerà in sé e che, se anche oggi giudica ingiustamente e anche se a milioni ci maledicono, un giorno marceranno dietro di noi. Ho voluto la cosa migliore anche se è stato difficile; Non ho voluto raggiungere altro scopo, se non servire ciò che per noi rappresenta il sommo bene sulla terra. Poiché non riesco a staccarmi dalla fede del mio popolo, non riesco a staccarmi dalla convinzione che questa nazione un giorno risorgerà; non riesco a separarmi dall’amore a questo mio popolo e nutro saldamente la convinzione che arriverà un bel giorno l’ora in cui milioni di persone che oggi ci maledicono, ci appoggeranno e insieme a noi approveranno il nuovo Regno Tedesco, che abbiamo creato assieme, conquistato con fatica e conquistato amaramente, il Regno della grandezza e dell’onore e della potenza, della gloria e della giustizia.”

Conquistare il potere assoluto tappa dopo tappa: è questo il piano di Hitler, che possiamo cogliere con occhio retrospettivo guardando al brano riportato, radiodiffuso all’epoca. La nostra storia attraverserà quegli anni, di pace e di guerra, fino all’ ecatombe disumana di Stalingrado, conclusasi al tempo della pubblicazione dell’ultimo volantino. Nelle settimane successive al discorso, in una Berlino notturna, il grande edificio parlamentare tedesco del Reichstag brucerà. Era l’ultimo baluardo della democrazia teutonica.

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Foto dell’incendio dei Reichstag.

Luca Malservigi

(In copertina Sophie Scholl)

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